La lettera al caro estortore trent’anni dopo

«Volevo avvertire il nostro ignoto estortore di risparmiare le telefonate dal tono minaccioso e le spese per l’acquisto di micce, bombe e proiettili, in quanto non siamo disponibili a dare contributi e ci siamo messi sotto la protezione della polizia. Ho costruito questa fabbrica con le mie mani, lavoro da una vita e non intendo chiudere. (…) Se paghiamo i 50 milioni, torneranno poi alla carica chiedendoci altri soldi, una retta mensile, saremo destinati a chiudere bottega in poco tempo. Per questo abbiamo detto no al “Geometra Anzalone” e diremo no a tutti quelli come lui».

Così inizia la Lettera al caro estortore, pubblicata dal «Giornale di Sicilia» il 10 gennaio 1991. Più che una comunicazione è un atto di sdegno. Libero evoca un fantasma che non vuole essere svelato e che scompagina la realtà apparente. La denuncia incrina lo specchio del «tutto va bene», «è stato sempre così».

L’opposizione alla mafia non è un assunto teorico, ma un’esperienza vissuta che incarna un’altra verità: la libertà non è conformarsi alla consuetudine, né una concessione benevola, è la volontà, prima di tutto personale, di non obbedire per circoscrivere uno spazio etico diverso dal sentire mafioso. Irridendo la figura dell’estorsore, smaschera la pochezza e la pusillanimità di Cosa nostra. A tutti è evidente l’asimmetria tra il potere mafioso e la fragilità dell’imprenditore, ma la posta in gioco è proprio questa: ridicolizzare Cosa nostra per metterne in discussione l’autorità. Con la Lettera traccia un solco che, da quel momento in poi, nessuno potrà fingere di ignorare: addita l’esistenza di un disagio collettivo. Piuttosto che una sfida alla mafia è una provocazione alla “palude” palermitana. L’assuefazione al cinismo ha inibito ogni reazione ad un fenomeno tanto vistoso, quanto nascosto. Nel 1991, prima delle stragi e della “strategia della tensione mafiosa”, Grassi agisce con meditata ragione: la Sigma è la sua creatura, coincidente con la sua stessa vita.

«Chiudere bottega» significherebbe rinunciare a vivere. Perciò, dopo aver consultato la famiglia, l’attore si mostra al pubblico e dichiara, agli “spettatori” indifferenti, che qualcuno sta minacciando di chiudere lo “spettacolo”. Libero dissente dal coro e rende visibile un’alternativa non universale, ma di parte, dalla parte di quanti sono costretti al mutismo omertoso. Prova ad indicare una strada diversa, fuori dal circuito vizioso: estorsione del clan, espropriazione dell’azienda, riciclaggio del denaro sporco. Certo, sarebbe più conveniente tacere. Parlare, in questi casi, vuol dire farsi dei nemici e incorrere in seri pericoli. Nonostante sia consapevole delle difficoltà reclama il diritto di tutelare la sua idea di civiltà, cercando consenso e solidarietà. Libero è convinto che i media gli faranno da scudo. Vaglia con accortezza il “dove” e il “come” proclamare la sua ribellione, ma sbaglia il “quando”. Indica un percorso di emancipazione e riscatto nel momento peggiore, ossia quando il clima di euforica mobilitazione della “primavera palermitana” è ormai spento ed ha ripreso corso il “riflusso mafioso”: il sindaco Orlando è stato defenestrato dai socialisti e dai nemici interni alla Democrazia cristiana; Falcone sta per lasciare la procura di Palermo in vista dell’incarico di Direttore generale degli affari penali al ministero di Grazia e Giustizia.

La sua voce risuona in un campo vuoto, inghiottita dall’indifferenza dei più. Sicché l’utilizzo dei media, invece di amplificare un atto di libertà, diviene, con il passare dei mesi, la strenua difesa di un’azione individuale. La presa di posizione pubblica di Libero, oltre i giornali locali, viene ripresa con un certo rilievo dal «Corriere della sera», mentre, tranne qualche trafiletto su «La Repubblica», «Il Giornale» e «Il secolo XIX», gran parte della stampa nazionale ignora l’avvenimento. Le prime reazioni appaiono positive. Il giorno seguente Grassi riceve la visita del prefetto, Mario Jovine, e del questore, Fernando Masone. Gli testimoniano, davanti a giornalisti, fotografi e cameraman, la solidarietà dello Stato. Gli offrono la scorta, ma Libero rifiuta e consegna simbolicamente alle forze di polizia le quattro chiavi dell’azienda. Non è lui ad aver bisogno di protezione ma la Sigma. Giungono, poi, i telegrammi di solidarietà dalle istituzioni locali e dalle associazioni professionali. Il 16 gennaio la federazione regionale degli industriali gli recapita un documento nel quale c’è un vacuo accenno alla criminalità e nessun esplicito riferimento alla sua denuncia. L’ambigua posizione si chiarisce il 22 gennaio. Riccardo Arena, del «Giornale di Sicilia», intervista il presidente degli industriali palermitani, Salvatore Cozzo, che prende le distanze da Grassi: la sua è una “tammurriata” che squalifica la regione come «terrà di criminalità». Sembra di sentire il Berlusconi del 2009 quando dichiarava che avrebbe strozzato tutti quelli che parlando di mafia rovinavano il buon nome dell’Italia.

Dopo trent’anni ancora ricordiamo questa lettera perché ha assunto un duplice valore: monito imperituro al rischio di sottovalutare i fenomeni mafiosi; pietra miliare da cui cominciare a contare la strada fatta nel campo della prevenzione e dell’assistenza alle vittime del racket. Un giorno da ricordare non solamente per commemorare le vittime innocenti dell’estorsione mafiosa ma soprattutto per rammentare l’origine del movimento antiracket quale argine della libertà d’impresa garantita dall’art. 41 della Costituzione.

Marcello Ravveduto

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